Cosa possono fare politica e società per arginare le “grandi dimissioni”

7 Lug 2022 | Lavoro

Non è chiaro quanto sia consistente il fenomeno, eppure il punto rimane: al grido di questi ragazzi disaffezionati al lavoro, l’Europa dell’ora et labora deve offrire risposte. Ecco quali.

Le “grandi dimissioni” sembrano essere il nuovo mantra post-pandemico delle discussioni giornalistiche sulle tematiche del lavoro. Negli Stati Uniti, l’espressione “The Great Resignation” viene utilizzata per descrivere il movimento inaspettato e spontaneo di rinuncia al posto di lavoro per dedicare il proprio tempo alle relazioni sociali, alla famiglia e alle proprie passioni. In Europa, si parla di un 40 per cento dei lavoratori, soprattutto giovani, che vorrebbero cambiare stile di vita nei prossimi anni.

Non è però ancora chiaro quanto sia consistente, e soprattutto strutturale, questo fenomeno. Mentre i cantori delle “grandi dimissioni”, specialmente Oltreoceano, celebrano il carpe diem lavoristico delle nuove generazioni e ribattezzano l’economia del futuro con l’acronimo Yolo (“you only live once”, si vive una volta sola), alcuni analisti riferiscono di una lettura sociologicamente legittima, ma poco fondata statisticamente. In Italia, ad esempio, l’aumento delle dimissioni nel periodo post-Covid sarebbe motivato da logiche endogene, come l’incremento dei licenziamenti disciplinari per aggirare il blocco generale dei licenziamenti e la rinnovata fluidità del mercato del lavoro.

Eppure, il punto culturale e politico posto dalla Great Resignation rimane e afferisce al significato del lavoro nella società capitalista post moderna. Crescendo il numero di persone che possono vivere sulla rendita mobiliare ed immobiliare trasmessa da famiglie con sempre meno componenti, il lavoro tende a perdere il suo carattere costitutivo. E allora perché lavorare? Per fare carriera, per incrementare le entrate, per affermare la propria capacità? “Sono più della mia performance”, sembrano dire i giovani dimissionari. A questo grido cosa possiamo offrire noi europei, discendenti dell’ora et labora benedettino? Pur conoscendo la parzialità delle risposte politiche, possiamo immaginare alcuni processi virtuosi che, mettendo al centro la persona, inneschino nuovi vitalismi.

1) Promuovere la positività del lavoro

La capacità generativa di una nazione passa attraverso la creatività e l’operosità dei suoi cittadini, mentre in questi anni di pandemia la speranza per il nostro futuro sembra dipendere dai grandi piani di investimento pubblico. Puntare sulle giovani generazioni significa rimettere mano alle tante forme di introduzione al lavoro (tirocini curriculari nelle scuole e nelle università, alternanza scuola-lavoro, apprendistato duale), alla formazione continua, alla conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa. Ancora oggi le strategie di intervento pubblico si fondano quasi esclusivamente sulle politiche passive senza quasi prendere in considerazione le politiche proattive: soluzioni di accompagnamento nel mercato del lavoro costanti e personalizzate che permettano, anche attraverso sistemi dotali, di gestire le transizioni lavorative.

2) Vivere il lavoro insieme

Dentro e fuori i luoghi di lavoro, le persone si uniscono per costruire e i corpi intermedi sono la naturale forma di condivisione di significati, storie e responsabilità. È nella vicinanza all’esperienza quotidiana e concreta della vita dei lavoratori e dell’impresa che si possono trovare soluzioni sempre nuove ed efficaci. L’accordo tra le parti risulta essere più cogente della norma, la sussidiarietà più effettiva della centralizzazione ordinamentale. Certo, lo Stato deve garantire i diritti inviolabili del lavoratore, quali l’equo salario, la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro, il diritto alla formazione, il divieto di ogni discriminazione, la libertà sindacale, ma deve evitare di imbrigliare il mercato del lavoro con ulteriori vincoli, chiamando invece le parti ad assumersi il rischio e la responsabilità di un accordo, anche tramite la contrattazione di secondo livello, sia essa territoriale o aziendale.

3) Apprezzare il rischio imprenditoriale

A fondamento del nostro mercato del lavoro va rimessa la naturale simpatia verso chi fa impresa, verso chi decide di rischiare in prima persona per generare lavoro e benessere per sé e per gli altri, una istintiva fiducia verso la libera iniziativa e la capacità generativa in termini di idee e progetti imprenditoriali di ciascuna persona che si vuole misurare con il mercato.

I nostri giovani troveranno un senso nel lavoro, sapendone sostenere la fatica, laddove incontreranno imprese che ne apprezzino le aspettative di vita e professionali, colleghi che vivano con loro le sfide del tempo presente e un mercato del lavoro che sappia accompagnarli nella giusta crescita che cercano.

Articolo pubblicato sulla rivista Tempi